Violenza sulle donne

RUOLO DELLE POLITICHE SOCIALI E CULTURALI

Il tema della violenza sulle donne richiama questioni complesse di rilevanza storica, sociale, biologica, educativa.

I casi che si leggono o si sentono tutti i giorni in modo più o meno analogo continuano e si ripetono con un trend costante, come se l’esistenza del deterrente della pena non assuma rilevanza o significativa incidenza e non siano fattore di dissuasione.

Il problema oltrepassa la sanzione o la ricostruzione penale o processual penalistica, oltrepassa la criminologia,  i confini territoriali, di classe, di religione e si ritrova in tutte le civiltà, persiana, greca, romana, medioevale. Ciò significa che coinvolge la condizione e i rapporti umani, il ruolo di subordinazione, i legami affettivi, il vivere insieme nel mondo. 

Nella prevalenza dei casi di violenza sulle donne emerge un denominatore comune. Un dato è significativo: per esempio nel 2020 in Italia sono state uccise 116 donne, nel 92,2% è stata uccisa da persona conosciuta. Nella metà dei casi sono state uccise dal partner attuale (indice Istat 2021).

Da questo si ricava che sono relazioni tra persone all’apparenza “normale”, si conoscono in famiglia o a lavoro, sono rapporti di coppia, di  amico o di marito, o ex marito, di  compagno, o fidanzato o ex fidanzato. 

Se esaminiamo le dinamiche dell’evento, comuni sono le circostanze tipo: “mi picchiava”, o “avevo paura, ma lo amavo”“ continuo ad amarlo”  “non riuscivo a reagire”,  o durante la confessione  o l’interrogatorio l’omicida dichiara  che “l’amavo”; l’ha fatto perché era “terrorizzato” dal pensiero di perderla; lo ha fatto perché non poteva reggere al pensiero che la relazione potesse  interrompersi.

Come spiegare  questa perversa giustificazione secondo cui  lei “gli apparteneva”?  come se qualcuno avesse attentato o sconfinato nel suo territorio e lui fosse intervenuto per difendersi da chi gli stava sottraendo una cosa sua.  

L’autore omicida agisce convinto di esercitare un potere assoluto, di supremazia maschile. Sullo sfondo di questo comportamento  alberga un pensiero forte che diviene ossessivo e sfocia nel delirio  tanto da non avere la capacità di tenere distinta l’alterità e l’identità della persona e del corpo che si ha davanti. Come se l’altra persona che diventerà vittima del reato di cui si pretende il possesso non abbia vita propria e debba fondersi e unirsi in un solo tutto nell’ infausto destino irreversibile di chi nella sua ossessione pretende di possederla. 

La prima risposta sociale, immediata e spontanea, è la sanzione. Chiedendo l’intervento della detenzione crediamo per un attimo di avere neutralizzato o contribuito a limitare il fenomeno.  La violenza però continua con la stessa o maggiore intensità con altri casi analoghi. Evidentemente la presenza della sanzione come deterrente a fini retributivi o di prevenzione non elimina né frena dalla mente di  uomini ossessionati questo pensiero connotato dalla padronanza del corpo dell’altro. 

Dobbiamo ritornare alle cause, risalire agli stereotipi culturali  antichi di millenni. Sintomatici di modelli di organizzazione sociale e familiare sul ruolo della donna nel mondo, della sua capacità anche riproduttiva  e del rapporto di relazione. E’ il modello  “patriarcale” ad avere contribuito alla legittimazione e al consolidamento del mito  della supremazia maschile, estesosi al sistema  della cultura, del diritto e della religione. Modello elevato a “nomos” risalente a origini mitiche e bibliche di Pandora, di Eva. Donna come causa dei mali, con un ruolo  derivato, di secondo sesso, di sesso sacrificale anche  funzionale all’economia del sistema secondo la logica della riproduzione umana.

Un modello  connotato dalla storia maschile, da una forma relazionale che vede il desiderio maschile impadronirsi del corpo femminile  in termini animaleschi, disuguali, ove il corpo è vissuto come un oggetto di desiderio, privo di autonomia perché (ri)compreso nell’identità del potere del maschio.  L’epilogo che ne consegue è il potere della disuguaglianza e discriminazione destinato anche a sfociare in violenza e in gesti estremi.

Dall’ottocento in modo lento e graduale con alti e bassi è stata riconosciuto alle donne più rispetto e dignità, rispetto dei diritti, giungendo al riconoscimento del diritto di voto  grazie anche alle istanze sociali e allo spirito di solidarietà di movimenti sociali e politici. Così lo schema del potere dell’uomo sulla donna ha iniziato a cambiare. Vi hanno contribuito le istanze di emancipazione della coscienza femminile. 

Nel novecento vi è stata una accelerazione. Se prima le donne sono state relegate al ruolo subalterno con il loro corpo destinato alla catena della riproduzione, quantomeno nel mondo occidentale la donna si è liberata dal ritmo millenario imposto dalla detenzione maschile. Oggi non si giustifica più la supremazia sulla donna almeno apertis verbis. Almeno sul piano teorico si riconosce l’importanza dei rapporti paritari.

Ci sono voluti secoli per giungere all’adozione di nuove politiche familiari dettate dal principio di uguaglianza. Ancora per certi versi da attuare. Pensiamo solo che in Italia il fenomeno della violenza e della discriminazione nei confronti delle donne  ha iniziato ad essere affrontato concretamente nel 1975 quando è stata abolita l’autorità maritale sulla consorte. La Costituzione  improntata a principi giusnaturalistici di uguaglianza è del 1948, eppure l’abrogazione del delitto di onore è del 1981 (!) Fino agli anni 90 il reato sessuale non era considerato un reato contro la persona e la sua libertà, ma contro la morale.

Si tratta come può constatarsi dello sviluppo di un percorso lento che ha portato a neutralizzare lo schema del potere maschio-femmina. 

Se questo sviluppo indubbiamente positivo continua però ad innestarsi sul modello sociale che viviamo, privo di riferimenti valoriali e incentrato nel mercato e nel consumo onnivoro, sulla esasperazione delle forme del narcisismo e dell’individualismo, sarà difficile superare l’antico schema e la dinamica della disuguaglianza nel rapporto tra sessi. 

Sarà difficile se continuiamo ad essere travolti da marchi e modelli di pubblicità o annunci ove  la donna  (soprattutto) e gli uomini fungono da merce, come consumatori utili da sfruttare. 

Il mercato della pornografia per esempio offre un quadro di rafforzamento negativo dello schema individuo -merce, di sessualizzazione della donna che non esiste come persona ma  come oggetto sessuale a disposizione.

Sono tutti stimoli che favoriscono la parte del cervello più primitiva, l’assenza di legami sentimentali e di rapporti paritari. Anzi rompono il necessario legame che deve esserci tra sesso e sentimento.

Allora, dentro questo scenario del vivere nell’ incapacità di concepirsi autonomi e di intercettare l’altro, del vivererelazioni di coppia consegnate alle cose, l’ affermata supremazia del maschio si sente sotto attacco, ha paura di perdere ciò che ritiene di sua “appartenenza”. Vive la perdita in termini di dipendenza patologica, come una minaccia. Da qui facile è il passo verso lo scatenamento di violenza fisica, psicologica, morale o quella estrema dell’omicidio. Talvolta omicidio-suicidio. Si accoltella o si uccide perché nel delirio di impossessamento non si accetta la perdita.

Il problema vero è che abbiamo dimenticato la cosa più importante. Che siamo animali sociali e viviamo di relazioni. Invece il modello che pervade la società è l’individuo. Solo l’individuo con il suo narcisismo più sfrenato finalizzato a godere le cose. 

Bisogna ripartire dalle relazioni umane fatte di persone di pari dignità, non di relazioni individuo-cosa.  

E’ un percorso che deve coinvolgere la famiglia, la scuola, le istituzioni, finalizzato  al rispetto dell’altro, alla consapevolezza di quello che siamo come essere umani. 

Se esiste una differenza biologica non significa che vi sia supremazia, ma identità paritaria. 

Un destino comune lega uomini e donne. 

Serve educare a modellare le nostre azioni e le esperienze di legame, dei vincoli giusti, ove non tutto è possibile. Soprattutto rispetto all’esperienza dell’amore.

Compito del potere pubblico, della scuola e della famiglia è  aiutare alla costruzione dell’identità personale negli affetti; a distinguere i rapporti reali da quelli virtuali; a come passare dallo stato pulsionale a quello delle emozioni;  al fatto che l’altro/a è persona reale e non virtuale che va rispettata; perché è differente da me, altro da me, con una sua autonomia affettiva ed emotiva; e che solo con questi requisiti può nascere un amore sano. Aiutare a sviluppare relazioni sociali non aggressive e connotate da altruismo. 

Quindi più che l’educazione della sessualità in termini scientisti o su componenti anatomiche, occorrerebbe addestrare alla risonanza emotiva, insegnare a vivere la sessualità con i poeti e la letteratura, ad affrontare l’amore e il desiderio dei sensi che è esperienza forte,  totalizzante e imprevedibile e a non appropriarsi degli affetti anche quando sono vertiginosi e all’inizio sembra che nascano per sempre, a vivere la possibilità che non ci sia reciproca corrispondenza, oppure a vivere il distacco e la separazione di ciò che sembrava nato per sempre. Perché l’amore  come può nascere può finire.

Novembre 2022,

gianfranco meazza

(intervento al Convegno del 22 novembre 2022 Aula Magna Università di Sassari, Unione Forense per la tutela dei Diritti Umani, dal titolo” “strumenti e prassi per contrastare la violenza sulle donne”).